di Massimo Conte
“Stare”, cioè esserci, è diverso da “essere in connessione”. Possiamo essere in connessione, cioè in sintonia lavorativa ed emotiva, con persone fisicamente distanti; e possiamo essere lavorativamente ed emotivamente distanti da persone che lavorano accanto a noi. Non è la distanza fisica ad essere determinante sulla sintonia nel lavoro di gruppo, MA: la presenza fisica può facilitare una serie di momenti (e apprendimenti, e comunicazioni) informali dovuti alla prossimità, quasi casuali, che nel lavoro a distanza diventano più difficoltosi.
In una comunicazione a distanza – pensiamo ad una call o una telefonata – come sappiamo da Shannon in poi, abbiamo bisogno di emittente, destinatario, canale, messaggio, codice. Tutti elementi che possiamo avere sia a distanza, sia in presenza. Quello che diventa più episodico, a distanza, è l’opportunità, perché le comunicazioni digitali lavorative sono finalizzate ad un obiettivo; hanno una finalità ben precisa, perché il tempo rischia di non essere mai abbastanza, e l’elenco dei “to do” lievita inesorabilmente.
Comunichiamo con una o più persone (clienti, colleghi, fornitori) con un obiettivo, e non… “tanto per parlare”. Non ne avremmo il tempo. Tuttavia, quando siamo in presenza, il momento informale per eccellenza, il caffè, diventa un momento di scambio. Viste da un osservatore esterno, le interazioni nei momenti informali dicono molto, se lette insieme e/o oltre all’organigramma aziendale: team di lavoro che in blocco prendono anche il caffè insieme; colleghi diventati amici che fanno le pause insieme, anche se nei flussi di lavoro non interagiscono mai; connettori, ovvero individui che fanno da ponte tra sottogruppi coesi, e riescono a passare da un gruppo all’altro, da una comunicazione all’altra in agilità; attrattori, che entrano nell’interazione sociale prepotentemente, calamitando le interazioni intorno a sé. Un microcosmo di dinamiche non replicabili nel lavoro a distanza.
Durante la pandemia i legami forti (gli individui con cui interagivamo per motivi di lavoro) sono diventati ancora più forti, e i legami deboli (i colleghi che prima in presenza incontravamo nell’ascensore o al caffè) sono diventati ancora più deboli, proprio per quella mancanza di opportunità di serendipity, di interazioni dovute alla presenza fisica nello stesso luogo.
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Negli ultimi due anni abbiamo imparato tutti ad essere più fluidi, ad adattarci a cambiamenti spesso improvvisi e molto impattanti, che avevano grandi conseguenze sul nostro equilibrio psico-fisico, sulla nostra salute e quella dei nostri cari, sul nostro bilanciamento vita-lavoro.
Nel 2020 la parola d’ordine è stata new normal: un’aspirazione di ritorno alla normalità, e (implicitamente) alla precedente normalità, a quella pre-pandemia.
Nei 2021, con le vaccinazioni di massa e una nuova accresciuta consapevolezza che dalla pandemia si può uscire senza bisogno di tornare al passato, il tema si è spostato sull’hybrid working: siamo in cerca di nuove modalità di lavoro e di relazione. Per ibrido, in biologia, si intende un incrocio, una ricombinazione di elementi che genera un nuovo individuo in cui c’è una rimescolazione di caratteristiche già esistenti, ma prima non presenti in quella configurazione.
Abbiamo scoperto che lo smart working “si-può-fare” (rigorosamente recitato come in Frankenstein Junior) e non solo: abbiamo vissuto nella nostra esperienza, prima ancora di comprenderlo e avere le parole per raccontarlo, una sorta di salto temporale, un’accelerazione di dinamiche già in atto (Alessandro Baricco parla di cinque anni in uno).
L’hybrid working non è una modalità Frankenstein, in cui pezzi e modalità differenti di lavoro sono giustapposti; sta diventando piuttosto il modo di chiamare una nuova esigenza emergente, quella di coniugare la qualità di vita data dal bilanciamento vita-lavoro e la necessità di connessioni umane e fisiche, reali, che ci restituiscano quel senso di appartenenza.
È una strada ancora in divenire: Satya Nadella, CEO di Microsoft, parla di Hybrid paradox, perché le persone vogliono allo stesso tempo sia più flessibilità (quindi poter lavorare a distanza), sia più rapporti umani in presenza (quindi tornare a incontrarsi). Le organizzazioni e gli individui sono in cerca di nuovi equilibri, ma la strada è tracciata: c’è una nuova consapevolezza su come il benessere emotivo degli individui non sia secondario, anzi sia fondamentale per la loro produttività e la loro permanenza in azienda.
Quello che cercano le persone non è tanto legato al dove/con quale tecnologia lavorare, ma al perché e al come: il motivo per cui facciamo quel lavoro e le connessioni che tessiamo, la rete di relazioni, l’ecosistema di cui facciamo parte che ci dà le coordinate e ci consente di cercare/dare un significato al nostro lavoro.
E qui torniamo al caffè, come metafora dell’incontro casuale ma non banale: un momento di creazione, adattamento, riconnessione, rigenerazione di sinapsi relazionali e organizzative, del nostro insieme unico di legami forti e di legami deboli, che è il nostro patrimonio di relazioni.
Il caffè è un luogo-non luogo, un punto di breve stasi e di passaggio allo stesso tempo, con codici analoghi ma diversi dal momento lavorativo. Di sperimentazione, di giochi linguistici, di comunicazione non verbale, in cui possiamo riappropriarci del piacere di condividere fisicamente insieme piccoli momenti non finalizzati ma essenziali nella vita di una comunità lavorativa.